domenica 21 luglio 2024

Mietitura e trebbiatura '24

Quest'anno la mietitura non è stata un successo, l'avena è stata colpita dalla ruggine e nemmeno un tempestivo trattamento a base rame l'ha salvata, ma d'altro canto si sa per questo cereale devo andare bene i tempi e non il terreno.

Altra triste sorte è toccata al fumento che non appena maturato, mentre le spighe erano ancora verdi, è stato spazzato dagli uccelli, anche se devo ammettere la voracità che hanno quest'anno non l'avevo mai vista, stanno spazzando ogni coltura.

All'orzo invece è andata bene, è venuto su bene, con spighe piene, senza essere affette da stretta o da qualche malattia fungina. Oltre a ciò si è salvato dalla fame dei volatili, alla fine è un cereale vestito e fa poco gola.

Orzo in piena fioritura ad aprile

Altra particolarità di quest'anno che mi ha un po' sorpreso è che avendo anticipato la semina di venti giorni rispetto al solito, anche la maturazione si è anticipata (ovviamente). Infatti, a fine maggio l'orzo era pronto per essere mietuto, mentre il fumento terminava la sua maturazione.
Covoni di orzo
Comunque con il grano e l'avena andati in malora, mi sono consolato con l'orzo. I primi giorni di mietitura sono stati duri, poiché non ero abituato. Mentre il terzo giorno subii una brutta battuta d'arresto, in quanto durante la notte e tutta la mattinata seguente piovve, bagnando tutto. Con mia grande sorpresa l'orzo raccolto in covoni si bagnò di meno, rispetto a quello rimasto in campo aperto, andandosi poi ad asciugare più velocemente.
In totale mi ci vollero quattro giorni di mietitura, poi uno per far seccare meglio le spighe. Infine, passai alla trebbiatura durata altri due giorni, dove battevo, con la mia solita mazza, le spighe belle calde su di una tela, per facilitarne la successiva raccolta.
Orzo lavato e messo ad asciugare
Poi terminata questa fase, ho provveduto a vagliare il cereale separandolo da paglia e le pagliuzze della spiga. Come sempre per ottenere una migliore pulizia ho lavato l'orzo, per eliminare gli ultimi residui e la terra, ottenendo così un prodotto pulitissimo.
La resa, un po' scarsa, si attesta a 41.7kg  di cereale (dovevano essere 60.0kg), di cui 3.1kg sono stati raccolti a parte per la semina del prossimo anno, selezionando durante la mietitura le spighe più sane e dai chicchi più grossi.





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domenica 7 luglio 2024

Grape Ale e IGA

Cosa succede se come frutta per una birra si usa l'uva? Dalla loro unione nasce la Grape Ale, anche se il vanto iniziale è tutto italiano con la IGA (Italian Grape Ale).

Scoprì questo connubio nel 2018, agli inizi della mia carriera da homebrewer, quando m'imbattei in un articolo dell'"Informatore Brassicolo" e ne rimasi affascinato, ibrido tra birra e vino, è una sotto categoria delle birre alla frutta che meglio si confà all'Italia.

Ma la nascita dell'IGA rimanda al 2006 quando un birrificio sardo, Barley, decise di arricchire la sua Imperial Stout con della sapa di Cannonau, vitigno tipico della regione, il quale prese il nome di BB10°. Questa fu il trampolino di lancio per tutta una serie di birre sue, come BB Evò (2009), una barley wine fatta con sapa di Nasco; BB9 (2012), un'amber ale arricchita con sapa di Malvasia; e BB Boom (2015), sempre amber ale, ma con sapa di Vermentino. Che nel tempo si sempre aggiunte tante altre, le quali ormai sono un marchio di fabbrica di questo birrificio.

L'onda dell'IGA fu subito cavalcata da diversi altri birrifici, infatti, abbiamo nel 2010 "L'equilibrista" di Birra del borgo, dove ad una birra di loro produzione (Duchessa, una saison fatta con il farro) è stato aggiunto fino al 50% mosto di Sangiovese. Poi nel 2013 il birrificio Limes, creò Brùton, un'IGA dalla carbonatazione spumantina fatta con mosto di Vermentino. E insieme a loro tanti altri birrifici.

Questo stile ebbe così successo che nel 2015 venne riconosciuto e inserito nel BJCP, nella sezione 29, quella delle birre alla frutta. Un bel vanto tutto italiano, se non fosse che anche gli altri stati produttori di viti (e vino) ne reclamarono lo stile e nel 2021 quel posto è stato preso dallo stile Grape Ale, con il codice 29D, sempre della categoria delle Fruit Bier. Andando ad eclissare un po' lo stile IGA, alla quale è stata assegnato un nuovo codice X3, nella sezione degli stili locali.


Birra base

Come con una birra alla frutta, la prima cosa da scegliere è la base, e un po' ci si rifà ai punti visti in precedenza:
  • il migliore stile al fine di equilibrare il corpo è quello di una birra di frumento, ma se si vuole ottenere qualcosa di secco che emuli un po' uno spumante vanno bene stili come pilsner o saison. Quindi si andranno ad impiegare malti base chiari, con al massimo l'aggiunta di qualche malto caramellato per far sentire un po' l'aroma maltato, soprattutto se vi vanno ad impiegare uve a bacca bianca. Infatti, con quelle a bacca nera, si può osare di più, come accentuare il colore con malti base più scuri (vienna e monaco) o qualche malto più tostato. Sempre facendo attenzione a non coprire troppo il contributo dell'uva. In aggiunta si possono usare altri cereali come frumento o farro, maltati o crudi, al fine di dare corpo alla birra;
  • la luppolatura non deve essere invasiva soprattutto nel caso in cui s'impiegano uve bianche, quindi è preferibile usare luppoli nobili, con note floreali o terrosi e non citriche, in modo da accompagnare quelle dell'uva senza coprirle. Come pure l'amarezza va bene non superare rapporti BU:GU di 0.5;
  • il lievito da impiegare, come con le birre alla frutta, deve essere neutro o leggermente fruttato. In questi casi possono anche utilizzare lieviti enologici, visto che si ha a che fare con dell'uva. Oppure sfruttare quelli naturalmente presenti sulla buccia, andando così ad avere un prodotto a fermentazione spontanea, ma che necessita di maggiori cure ed accortezze, spesso questa tende ad essere chiamata Wild IGA o Sour IGA, per via delle caratteristiche brett ed acide della fermentazione spontanea. Per chi non è pratico con questa fermentazione, può impiegare lieviti brett, per dare un po' di funky e accentuare il lato vinoso di questo stile.

Uva

Qua come sempre ci si può sbizzarrire, il territorio italiano ha una lunga tradizione enologica, con migliaia di vitigni. Non ché la versatilità con può essere impiegata in diversi modi. Quindi scelta la base della nostra birra, bisogna vedere come unirla alla nostra uva:
  • quale uva usare? Prima cosa da sceglie è il vitigno che si vuole impiegare, anche se visto che ogni regione ne vanta uno tipico di essa, si può partire da essa;
  • come aggiungerla? Qua si che ci si può sbizzarrire. Si può partire da uva al naturale o pigiata intera, proprio come con il vino, ed avere il massimo del suo contributo. Oppure si può usare il mosto come: il mosto muto, mosto appena pigiato il quale non ha ancora fermentato o che ne è stata bloccata la fermentazione; mosto fermentato, mosto che ha subito la completa o parziale fermentazione con o senza le bucce e che quindi si porta con se la componente selvatica; e il mosto cotto, cioè mosto muto che ha subito un trattamento di concentrazione fino a ridurlo a 1/3 del volume iniziale, in pratica è uno sciroppo d'uva, ottimo per arricchire stili molto alcolici. Un'altra forma che si può impiegare è quella delle bucce pigiate, in questo modo il si ha solo un contributi aromatico/fenolico e del colore da parte dell'uva. Infine, ci c'è l'uva appassita, un uva che ha subito un processo di essiccamento al fine di alzare il suo grado zuccherino e ottenere un vino più forte, da usare intera o solo il mosto derivatone;
  • quando aggiungerla? Come sempre il miglior momento è a fine fermentazione oppure prima di essere imbottigliata, se si usa il mosto. Ma ad inizio fermentazione va anche bene, in modo da abbreviare i tempi di fermentazione. Qua si può fare l'aggiunta a fine bollitura in modo da avere l'occasione di pastorizzare il tutto. Poi sta a noi se si vuole condurre una fermentazione selvatica o addirittura spontanea;
  • quanta aggiungerne? Come sempre la regola massima e di non superare il 50% dei fermentabili, infatti, molti produttori impiegano fino ad un massimo del 40% di mosto aggiunto. Mentre di uva intera, come sempre una buona base di partenza sono i soliti 100 - 200g/l, sta tutto al birrario constatare il contributo dell'uva per calibrarne le aggiunte.

Conclusione 

Alla fine i due stili non cambiano molto tra loro, anzi sono lo stesso stile. Ma la IGA deve essere prodotta esclusivamente in Italia, per essere tale. Mentre al di fuori di essa si hanno le Grape Ale.
Come caratteristica principale è che devono combinare sia quelle di una birra che di uno spumante, quindi malto e luppolo devono essere equilibrati insieme all'uva, non devono coprire l'altro. Infatti, al naso bisogna percepire delle note vinose, accentuate, se presenti, da quelle brett. Mentre il sapore può variare in base all'uva usata, si va da note di frutta bianca (pesca, albicocca) date appunto dalle uve bianche, a quelle di frutta rossa (ciliegia, mirtillo) per le uve nere.
La colorazione come sempre dipende molto dal tipo di uva impiegata, quindi si va da un a giallo carico a un ramato, ma ci si può spingere al marrone. Una carbonatazione medio-alta, corpo medio-leggero e un'acidità che ne incrementa la secchezza.
Un grado zuccherino iniziale è relativamente altro, dato dal grande contributo zuccherino dell'uva o del mosto, il quale porta ad avere un buon tasso alcolemico per via un'alta attenuazione.
Quindi non resta che sbizzarrirsi, soprattutto perché abbaiamo uno stile tutto nostro.





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domenica 23 giugno 2024

Fruit Beer

Birra e frutta nei secoli si sono scontrati e uniti in diverse occasioni, ma in Europa, soprattutto presso gli stati maggiormente produttori di birra (Germania e Inghilterra) quest'unione non era ben vista; perché le bevande nate dalla fermentazione di frutta erano viste minori al vino, quindi basta immaginare come veniva vista qualcosa nata dall'unione di frutta e malto. Ricordiamo, però che in passato la birra veniva prodotta in casa, dove ognuno aggiungeva quello che aveva a disposizione, oppure quello che era tipico di quelle regioni. 
Sorbus aria (L.) Crantz, © 2007,
Beat Bäumler – La Rippe (VD)
Tant'è che si hanno testimonianze storiche, da parte di Virgilio, che i Galli aggiungessero farina di sorbe (sorbus aria o aria edulis), per migliorarne il sapore. Anzi lo stesso sidro nasce dalla parola ebraica shekar, che stava ad indicare una bevanda forte fatta con diversi tipi di frutta fermentata, da cui poi si è affermato l'uso delle mele, ma la sua radice è accadica, shikaru, che sta ad indicare una birra d'orzo.
In Europa l'unico popolo che ha spesso accostato la birra alla frutta sono i belgi, con i vari lambic, come il kriek e il framboise. Essenzialmente birre di frumento a cui si aggiunge dal 10 al 50% di frutta.
Ma è negli States che si registrano la maggior parte delle birre alla frutta prodotta. Dove l'unico limite delle possibili birre è l'immaginazione, anche se però bisogna sempre tenere a mente una regola: per poter parlare di birra, essa deve essere composta da almeno il 50% dei fermentabili derivati da malto. Altrimenti si avrà un vino di frutta o un sidro addizionato a del malto.

Birra base

Per brassare una birra alla frutta bisogna innanzitutto partire da una base, e già qua ci si può sbizzarrire. I migliori stili da usare sono le pilsner e le scottish ale, birre molto pulite come aroma e sapore, dal corpo leggero, che andrà a coprire poco il contributo della frutta. Ciò però comporta un piccolo intoppo, il contributo in quanto materiale fermentabile della frutta è di semplici zuccheri, quindi comporta una certa secchezza nella nostra birra, prendendo la definizione di sidrosa. Per questo è meglio impiegare uno stile con un corpo più persistente come le weizenbier, i modo da non avere una birra troppo sidrosa.
In aggiunta durante la brassatura si posso impiegare malti colorati, in modo da accentuare il colore dato dalla frutta o dare qualche nota di caramello al prodotto finito. Addirittura c'è chi si è spinto ne produrre birre alla frutta usando come base porter e stout, alla fine l'abbinamento note di tostato caffè/cioccolato a quelle acide della frutta rossa è connubio molte volte presente in pasticceria.
Comunque, essendo la frutta il maggior contributo dell'aroma di questo stile, il luppolo ricopre un ruolo marginale. A meno che non si vogliano sfruttare le note citriche/tropicali dei luppoli americani, per abbinarli al sapore (acido) della frutta. Sempre però mantenendo un'amarezza marginale altrimenti si andrà a coprire il tutto.
Ray Daniels, autore di "Progettare grandi birre", consiglia come caratteristica di una fruitbeer, una densità iniziale di 1.050 (12.4°Br), un un rapporto BU:GU di 50 (quindi 25IBU), che non è male come base di partenza, poi ognuno può calibrarla in base al prodotto che si vuole ottenere.
Una cosa che ci tengo a dire è quella di avere l'accortezza della diluizione data dalla frutta, generalmente essa ha una resa di succo che va dal 50 all'80% del suo peso, quindi se il grado zuccherino iniziale della birra è superiore a quello della frutta si avrà un certa diluizione, come pure dal punto di vista dell'amarezza, essa va calibrata tenendo conto anche del contributo di liquidi dato dalla frutta.
Infine, parliamo di lieviti, come detto la base per questo stile deve essere scelta al fine di non coprire il contributo della frutta, quindi ceppi lager o ale americani vanno più che bene, i primi perché sono molto puliti, mentre i secondi per il loro carattere fruttato. Ma ho ottenuto buoni risultati sfruttando i lieviti naturalmente presenti sulla frutta, la quale veniva introdotta non appena il mosto si raffreddava, andando così a produrre una birra alla frutta a fermentazione spontanea.

Frutta

Qua come detto il nostro limite è l'immaginazione, perché si possono avere le seguenti combinazioni:
  • quale frutta mettere? Va scelta il tipo di frutta che maggiormente piace, basti pensare ai frutti bosco, alla frutta tropicale con i suoi profumi e sapori esotici; gli agrumi dove si può impiegare anche la buccia per un maggiore contributo aromatico; le cucurbitacee, soprattutto la zucca, previa cottura (fatta al forno), oppure meloni e l'anguria; prunacee come pesche, nettarine e nocipesche, oppure albicocche, ciliegie, amarene e susine; ma si possono usare anche mele, pere e sorbe.
  • come aggiungerla? Qua si bisognerebbe rispondere: come viene più comodo. La si può usare intera, facendo attenzione se si vuole un prodotto pulito, a non creare contaminazioni, e quindi avere l'accortezza di disinfettarla prima dell'introduzione nel fermentatore. Un'altra accortezza è quella, al fine di facilitare la separazione della birra dalla polpa esausta è di utilizzare una mussola o un sacchetto filtrante nel quale mettere la frutta da aggiungere. Un'alternativa è quella di usare delle puree o degli estratti, molto più facili da maneggiare, dove anche qua per evitare contaminazioni sarebbe bene pastorizzare il tutto.
  • quando aggiungerla? Per avere un buon contributo aromatico il migliore momento è a fine fermentazione, in modo da avere la possibilità, di poter fare altre aggiunte successive. Si possono addirittura aggiungere succhi ed estratti al momento dell'imbottigliamento per avere un contributo più fresco e sfruttare gli zuccheri in essi contenuti per la rifermentazione in bottiglia. Ma l'aggiunta può essere fatta all'inizio della fermentazione, in modo che insieme al malto vengano fermentati anche gli zuccheri di essa. Una cosa comodo per non incorrere in contaminazioni e poter pastorizzare il tutto è quello di fare l'aggiunta a fine bollitura, andando a sfruttare il calore residuo del mosto. E qua devo aggiungere un'altra accortezza, la quale è che molta frutta tropicale contiene enzimi proteolitici come kiwi, ananas e papaia, quindi sarebbe doppiamente utile pastorizzarla al fine di non avere un prodotto senza corpo o con una schiuma evanescente.
  • quanta aggiungerne? Come detto il limite è quello di non superare il 50% dei fermentabili, altrimenti il prodotto non può essere considerato birra. Ma una buona stima di partenza è di 100 - 200g/l, qua tutto sta al prodotto che si vuole ottenere e al tipo di contributo dato, il primo caso è adatto a frutta forte (frutta tropicale, mora, lampone), mente il secondo per frutta delicata (pesca, fragola). Sta poi al birraio calibrare la quantità da aggiungere.


Conclusione

Gli homebrews hanno più spazio all'immaginazione nel produrre una birra alla frutta, rispetto a un birrificio, il quale è legato alla produzione di un prodotto redditizio e che sia pratico da realizzare.
Il prodotto si deve presentare come una birra che mantiene la sua identità ma integra bene il carattere della frutta impiegata, infatti, questa deve dare complessità alla birra e non coprirla.
Aspetto, colore e sapore, sono molto influenzati dallo stile della birra base e dalla frutta impiegata, dove va ricordato che la frutta non aggiunge dolcezza (quella se ne va con la fermentazione), ma sapore, quindi bisogna vederla al netto del primo contributo. E un'ultima cosa, molte birre fatte con frutta fresca tendono a migliorare con l'invecchiamento, un po' come con il vino, non bisogna avere fretta nel consumarle.
Quindi non resta che sbizzarrirsi e buona birra a tutti.







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domenica 9 giugno 2024

Fico secco e uva passa - Parte terza

 Una parte ostica del progetto "Fico secco e uva passa" è stato che non potendo misurare direttamente il contributo zuccherino dei vari ingredienti aggiuntivi. Ne ho dovuto teorizzare il grado zuccherino del mosto avendo come base due informazioni quello finale del mosto e quello della frutta.


Nel primo caso, che è possibile osservare nella tabella sovrastante, ho calcolato il grado iniziale attraverso un iterativo dove mantenevo bloccato l'attenuazione apparente, considerata costante in tutti i casi e uguale a quella della cotta test. 

Questa si trattava di una semplice barley wine a cui non era stato addizionato nulla. La quale partiva da 20.0°Br, come la base di tutte le cotte fatte, e a fine fermentazione presentava 12.0°Br, un valore prossimo a quello delle cotte fatte in passato. Tutto ciò si  traduceva in un'attenuazione apparente del 49.3% e una graduazione alcolica di 7.6%ABV.

Così facendo però ho ottenuto dei gradi iniziali abbastanza uguali per tutti, come pure la graduazione alcolica calcolata tra 7.8 e 7.7 ABV. Però per poter effettuare tutto ciò ho dovuto trascurare la percentuale zuccherina di ognuno degli ingredienti.



Nel secondo caso, visibile nella tabella sovrastante, il calcolo è stato un po' più articolato, qua ho dovuto tenere conto di grado zuccherino e dell'umidità della frutta essiccata. Avendo come risultati valori piuttosto discordanti.

Dove ad esempio carruba, fico, mirtillo, ossicocco e pera non si discordavano dai valori della precedente ipotesi. Mentre gli altri ingredienti mostrano un apporto maggiore di zuccheri o una maggiore attenuazione apparente.

A questo punto significa che dovrò tentare con ingredienti aggiunti in diverse quantità oppure affidarmi a più di una coppia test.






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domenica 26 maggio 2024

Flemish Red e Oud Bruin

Le flemish red e le oud bruin sono delle birre fiamminghe acide che però non fermentano spontaneamente. Infatti, l'acidità l'acquistano nel tempo con l'invecchiamento. Mentre un'altra differenza sta nei malti e nei cereali impiegati per l'ammostamento, infatti, non viene utilizzato il frumento, ma mais, tra il 10 e il 20% in base allo stile. E diversi malti tostati per dare colore e carattere alla birra.

Per una maggiore comprensione geografica parlerò delle Fiandre. Queste sono una delle tre regioni che compongono il Belgio. Si trovano nella parte settentrionale del paese e in esse si trova la regione di Bruxelles-Capitale. 

Mentre si suddividono (da ovest verso est) nelle seguenti province: Fiandre occidentali, Fiandre orientali, Anversa, Brambate fiammingo e Limburgo, come è possibile vedere nell'immagine sopra [1].


Flemish red

Questo stile viene prodotto nelle Fiandre occidentali. Le birre appartenenti a questo stile si presentano di colore che va dal rosso-bruno al bordeaux, dato dall'utilizzo di malti moderatamente tostati; tanto da essere spesso chiamate "Borgogna di Belgio. La birra presenta sentori fruttati (frutta rossa), insieme a note di vaniglia, spezie e madeira, date dall'invecchiamento in botte.

Un grado iniziale tra 12 e 14 °P, con un'attenuazione apparente che può arrivare fino al 98%. E che porta ad avere 0.5 - 3.0 °P finali e 4.6 - 6.5 % ABV. Mentre il grado di amarezza è compreso tra 10 e 25 IBU, dati luppoli europei a basso contenuto di alfa acidi.

Come detto la sua produzione parte da malti base uniti a quelli moderatamente tostati e luppoli europei o inglesi. Alcuni produttori tendono invece a miscelare un mosto di solo malto pilsner con della birra scura prima dell'imbottigliamento (che ne accentua i sentori di invecchiamento).

La fermentazione può avvenire ad opera di un solo ceppo di lievito oppure di una miscela di lieviti e batteria. Mentre dopo la fermentazione primaria, la birra viene fatta acidificare in botti di rovere per un periodo che può durare fino a tre anni. Nelle quali tende a scurirsi per via del contatto con il legno e ad una lenta ossidazione.

Il carattere tipico di questo stile si sviluppa durante la lunga maturazione in botte, dove i microrganismi in esse contenute contribuiscono a ciò. Questo è dato dalla naturale porosità del legno. Come con il lambic, per garantire una qualità uniforme e una complessità viene tagliato con altre birre.


Oud bruin

Questo stile viene prodotto nelle Fiandre orientali. Le cui birre si presentano di colore rossiccio-bruno. Dai sentori fruttati (frutta a nocciolo e frutta secca) e maltati.

Un grado iniziale tra 10 e 18 °P, con un'attenuazione apparente del 80%. E che porta ad avere 2 - 3 °P finali e 4 - 8 % ABV. Mentre il grado di amarezza è di 25 IBU, dati luppoli europei a basso contenuto di alfa acidi.

Già ad una prima analisi queste birre sono molto differenti rispetto le Flemish Red, più scure e con l'amaro quasi il doppio, sebbene i malti impiegati le rendono più dolci. Vengono fatte fermentare con colture miste di lieviti e batteri, ma invecchiate in tini di acciaio. Questi presentano molti vantaggi, infatti, hanno bisogno di meno cure e manutenzioni rispetto alle botti in rovere, benché la birra risultante sarà diversa. E il suo punto di forza sta in ciò.

I serbatoi d'acciaio riscaldati permettono l'acidificazione della birra, essendo i batteri più dominati in fermentazione generano sottoprodotti differenti rispetto le cugine rosse. Così da avere un carattere aspro e vinoso di queste birre coperto da quello dolce e maltato della birra giovane.

Per questo motivo le Oud Bruin presentano un'acidità prettamente lattica, visto che i tini in acciaio non permettono la permeazione dell'ossigeno. Invece, le Flemish Red presentano un acidità acetica data dalla permeabilità delle botti.






Sitografia

[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/belgio_res-2ae17190-a825-11e2-9d1b-00271042e8d9_%28Atlante-Geopolitico%29/






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domenica 12 maggio 2024

Lambic

Originario del circondario di Bruxelles, il Lambic è tra i pochi stili esistenti a fermentazione spontanea, cioè l'inoculo dei microrganismi necessari per la sua fermentazione avviene naturalmente, senza che vi sia la mano dell'uomo. Nonché uno tra gli stili di birra acida più conosciuto.





Biére de mars, Faro e Lambick

In passato queste tre birre erano strettamente legate. Esse si producevano ammostando malto d'orzo e frumento (crudo) in egual quantità, insieme a pula di frumento (per migliorare la filtrazione). Dove l'ammostamento si aveva con l'aggiunta inizialmente di acqua fredda e successivamente di acqua bollente. 
Dal primo mosto, quello dato dall'ammostamento e quindi più zuccherino si andava a produrre il Lambick, che aveva un grado iniziale di 7-8°Bé (12.7-14.5°Br), e a fine fermentazione 2-3°Bé. Si trattava di una birra adatta alla lunga conservazione, la quale veniva effettuata in botti. 
Dal secondo mosto, quello derivato al lavaggio delle trebbie, povero di zuccheri. Si andava a produrre la Biére de mars, con un grado iniziale di 3°Bé (5.5°Br). Era una birra leggera adatta al consumo immediato.
Queste due birre si producevano in egual quantità a partire dalla medesima cotta di cereali. E mescolandole insieme si andava a generare il Faro. Quest'ultima tipologia, solitamente si andava preparando dall'unione in egual parte delle due birre sopra citate, già fermentate. Raramente dai due mosti, i quali dovevano risultare in un mosto approssimativamente da 5°Bé (9.1°Br), e fatta fermentare allo stesso modo di queste [1].

La fermentazione di queste birre avveniva nel periodo invernale, ed era spontanea, il che portava all'ottenimento a lungo andare di un prodotto acido, oppure con odori sgradevoli, nonostante si utilizzasse si utilizzasse del luppolo fresco, come si può vedere sopra [1].


Turbid mash

Il lambic prende nome dalla città di Lembeek, e si hanno notizie della sua produzione sin dal 1320. Ma quello che viene prodotto oggi, nasce agli inizi dell'800, perché la sua particolarità non sta solo nel come viene fermentata, ma anche per come viene ammostata. 
Ciò è causata da una legge olandese del 1820 (il Belgio dichiarò la sua indipendenza dai Paesi Bassi nel 1830), la quale tassava i birrifici in base al volume dei tini di ammostamento, con una scappatoia sui cereali non maltati che venivano ammostati separatamente (abolita nel 1885). Da qui nascono tecniche di ammostamento che prevedevano un tino di ammostamento e uno di gelatinizzazione dei non maltati, dove si prendeva parte del mosto del primo per ammostare il secondo.

Successivamente si venne a creare quello che oggi è conosciuto come turbid mash  o ammostamento torbido, che vede l'aggiunta di acqua calda alla miscela di grani, e lo spillamento del successivo mosto, per fare spazio all'aggiunta della nuova acqua.
Per semplificare il tutto ho riportato il seguente schema sulla sinistra, gentilmente preso dal sito: eurekabrewing.wordpress.com
Come si può vedere sono necessari tre tini, uno per l'acqua calda, uno per l'ammostamento dei cereali, e il terzo per l'ammostamento del mosto torbido.
Il risultato di tutto questo processo è quello di un mosto torbido, parzialmente saccarificato, le cui destrine ed amidi porteranno ad un lunga e lenta fermentazione da pare di lieviti selvatici e brettranomyces.

Luppolo invecchiato

Seconda particolarità del lambic è l'utilizzo in bollitura di luppolo invecchiato. L'utilizzo di quello fresco risulterebbe troppo batteriostatico per permettere la fermentazione lattica successiva a quella alcolica. Come riportato nello schema sottostante [2].


Poiché gli alfa acidi del luppolo isomerizzati in bollitura tendono a con il tempo a degradarsi, oltre ad essere sensibili al pH. Allora ci vengono in aiuto i beta acidi, che sono presenti in quantità inferiore (solitamente la metà di quelli alfa) nei luppoli, e una volta ossidati (con l'invecchiamento), sono solubili e con una buona stabilità apportano un grado di amarezza. Questo tipo di ingrediente lo si produce lasciando invecchiare per almeno tre anni il luppolo in balle, in modo che sia alfa che beta acidi si ossidano

La bollitura del lambic prevede una durata che va dalle 4 alle 6 ore, anche se tradizionalmente si procedeva con un sobbollita di almeno 12 ore. Mentre per tutto il tempo di ebollizione si mettono in infusione 5.6g/l di luppolo invecchiato per la luppolatura.


L'inoculo

Terminata la bollitura, il mosto viene inviato alle camere di raffreddamento, nelle quali sono presenti delle larghe vasche, chiamate koelschip, atte a questo processo. Qui il mosto caldo viene versato, e nel mentre filtrato dal luppolo, lasciandolo raffreddare per una notte.
Le vasche tradizionalmente in rame (a sinistra [4]), ma ve ne sono di moderne in acciaio inossidabile, presentano un rapporto superficie/volume di mosto che va da 0.14 a 0.58 1/dm. Il che significa che ad esempio per una cotta da 25.0l servirà una superficie che va da 3.5 a 14.5 dmq, quindi una pentola con un diametro da 3.5dm (9.6dmq) è un buon compromesso.
Nelle camere di raffreddamento sono presenti delle finestre per il ricambio dell'aria. E che tradizionalmente fungevano da inoculo, infatti, intorno ai birrifici, così come lungo tutta la valle della Senna, venivano coltivati i ciliegi Schaarbeek, i quali contribuivano in maniera naturale per l'inoculo del mosto. Mentre oggi queste camere vengono bagnate con del lambic maturo, per mantenere un a buona flora microbica in essa.

L'invecchiamento

Il mosto del lambic dopo essere stato raffreddato, viene spostato nel tino di fermentazione primaria, detto anche "horny tank", dove appunto fermenta e vi ci rimane per tutta la durata della fermentazione, circa tre o quattro mesi. 
Dopo di che per essere un vero lambic, esso deve invecchiare in botte per almeno tre anni, come detto precedentemente questo stile era destinato alla lunga conservazione. Ma il fatto che fermentasse spontaneamente lo rendeva instabile nel tempo, inacidendo, e questo è diventato il suo punto di forza oggi. 

Durante la sua maturazione in botte, il lambic passa dal sembrare una weizenbier, ad acquisire acidità, data dalla fermentazione lattica, e sentori vinosi dati dai brettanomyces. Un altro contributo dato da quest'ultimi è l'acidità acetica, poiché attraverso il legno delle botti permea ossigena, andando ad ossidare la birra.

Al termine di questa maturazione il lambic, viene blendato, cioè miscelato con altri lambic, nella stessa maniera con la quale si fa con i vini francesi. Al fine di garantire un prodotto costante.


La famiglia del lambic

Esistono diverse varianti del lambic, influenzati da come vengono lavorate e da cosa viene aggiunto. Il lambic puro, si presenta come una birra secca, acida e dai sentori funky. Essa non viene rifermentata in bottiglia, quindi la si serve liscia, ed può assomigliare ad un vino bianco.

Per mitigare la sua acidità, al momento in cui viene servita vi si aggiunge dello zucchero. Si ha così il faro, il quale come si può leggere sopra era una versione leggera del lambic di una volta. Mentre oggi appunto è la sua versione addolcita.


"I lambic, le birre alla frutta e le gueuze dolci non esistono. È impossibile. Se sono dolci, i casi sono tre: non sono lambic, contengono aspartame o sono stati pastorizzati. Il lambic è un prodotto naturale"

Jean-Paul Van Roy di Brasserie-Brouwerij Cantillon


Appunto, come si sa, se si aggiunge zucchero ad una birra non pastorizzata essa poco dopo tenderà a fermentare. Il faro lo si fa al momento del servizio, mentre alcuni produttori di lambic, per renderla più appetibile, gli aggiungono dolcificanti non fermentabili come aspartame o saccarina.

Un altro modo per mitigare il lambic è quello di aggiungere della frutta, e lo si fa direttamente in botte dopo uno oppure due anni da quando è stato trasferito in esso. Con un dosaggio di 2-3kg/l, ciò porta ad avvio della fermentazione, per via degli zuccheri contenuti nella frutta. Essa vi rimane tra i sei e i nove mesi, fino alla sua completa fermentazione. In passato la frutta veniva aggiunta sotto forma di succo al momento in cui veniva servita, per mitigare la sua acidità, poi col tempo si è iniziati a metterla in maturazione.

Tradizionalmente come frutta si utilizzano le ciliegie, come detto prima molto coltivate nella zona di produzione del lambic, e si ha così il kriek (ciliegia in belga) o kriek lambic. Mentre durante lo scorso secolo si è iniziati ad aggiungere altra frutta, inizialmente lamponi, per avere così la framboise o framboise lambic, e in seguito l'uva, druivenbier o druiven lambic. Mentre dagli anni '80 in poi i produttori hanno iniziato a sbizzarrirsi, andando a aggiungere pesche, ribes nero, albicocche e fragole.


Ultima variante del lambic è il gueuze, prodotto miscelando lambic giovane (un anno in botte) con lambic vecchi, in proporzioni varie:

  • 50% lambic di un anno, 25% lambic di due anni e 25% di tre anni;
  • 67% lambic di un anno e 33% lambic di due o tre anni;
  • 95% lambic di due anni e 5% lambic che ha fermentato per qualche settimana.

Questo blending, permette al lambic, di avviare una seconda fermentazione, la quale lo andrà rendere frizzante durante la sua maturazione in bottiglia. Infatti, questo stile non viene conservato in botte, ma in bottiglia, le quali vengono poste in orizzontale (immagine sopra [3]), e mantengono questa posizione anche quando vengono servite, poiché i lieviti si andranno a depositare lungo la bottiglia.






Bibliografia

[1] La Cambre, G.; Traité Complet de la Fabrication des Bières, et de la Distillation de Grain, Pomme de Terre, Betteraves, Topinambours, etc.; Tome Premier, Bruxelles, 1856;

[2] van Oevelen et al; Microbiological aspects of spontaneous wort fermentation in the production of lambic and gueuze, 1977;

[3] https://www.flickr.com/photos/13264649@N05/2141004100/

[4] https://www.flickr.com/photos/brostad/14270094022/in/photolist-nsG1rr-iLKUK7-a38poq-em6LsW-nKbDBT-nJTB8p-nJZXMQ-dSvjJN-nsG1kV-2euruKp-nH99uG-8ojvE9-2hpjmN8-7TWDfz-7tz5KX-nKbDuP-9DGjYC-9NsqDB-kKKyuD-9R1oDG-3rQ288-neoiYd-nmpVRu-rWRwAn-j6vdFV-efyNt2-2hbjhVT-p8gZGd-2kCBZSo-efEy77-9YThw7-qSDk4L-hZCW9q-48fyTq-dXTwie-dXZcvu-nmpWaL-jgaSZj-i26WuH-nynbW7-eoZT2Q-eoZRNW-eoZUb9-p8gZUh-rWJibs-efEycd-feUY6S-2kCBsnt-2kCBZUY-eH886z/






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domenica 28 aprile 2024

Fico secco e uva passa - Parte seconda

Dopo aver parlato della frutta essiccata più comune o come la definiscono gli anglofoni Mediterranea, in questa seconda parte parlerò inizialmente di due frutti essiccati che un tempo erano molto usati e che sono stati un po' dimenticati e successivamente di quelli un po' esotici.


Albicocche

L'albicoccha è il frutto dell'albicocco (prunus armeniaca L.), pianta appartenente alla famiglia delle rosaceae, quindi parente di rose, prugni e meli. Questa è stata importata in Europa dai Romani, e si credeva essere originaria dell'Armenia, tant'è che il frutto inizialmente veniva chiamata "mala armeniaca", cioè mela armena. Allo stesso modo delle pesche, che essendo state importate alla Persia, venivano chiamate "mala persica", cioè mele persiane, ma in questo caso il nome si è conservato nella parola pesca derivata da persica.
Con le albicocche il loro nome mutò nel tempo in quello attuale grazie agli arabi, infatti, esso deriva dallo spagnolo "albaricoque", adattamento dell'arabo "al-barquq", la quale a sua volta prende nome dalla parola siriana/aramaica "barquqyo". Sebbene la pianta si è diffusa in Europa dall'Armenia, essa si è rivelata essere originaria della Cina.
L'albicocca è molto simile alle susine, se non per un gusto più delicato e una leggera peluria sulla buccia. E per questo, un modo per conservarle è quello di essiccarle. Le albicocche secche denocciolate contengono il 60.% di carboidrati (53.0% di zuccheri semplici), l'8.0% di fibre, il 2.9% proteine, lo 0.5% grassi e il restante (28.5%) acqua e sali minerali. 


Per testare il contributo di questo frutto nella birra, sono andato a fare una piccola cotta di barley wine, 5.0l a 20.0Br, al quale ho aggiunto a fine bollitura 250.0g di mirtilli neri, i quali sono rimasti nel mosto per tutta la fermentazione.
Non potendo misurare appieno il loro contenuto zuccherino, ho teorizzato pervio calcoli, che il mio mosto partiva da 21.6Br e a fine fermentazione avevo 13,4Br, con un attenuazione apparente del 46.3% abbastanza tipica del Fermentis S-04 utilizzato e un grado alcolico di 7.3ABV.

Cachi

I cachi o loti o diospiro sono i frutti dell'omonima pianta (diospyros kaki L.f.), un ebenacea originaria dell'Asia orientale, che fu introdotta in America ed Europa nell'ottocento. Il nome cachi deriva dal giapponese kaki, mentre il nome loto deriva dal fatto che si pensasse essere il mitico loto consumati dal popolo orientale dei lotofagi o mangiatori di loto, frutto così buono da dare l'oblio a chi lo mangiava. Infatti, per loto s'intende l'albero di Sant'Andrea (dispyros lotus L.), pianta diffusa dall'Asia minore fino all'Asia orientale, che produce dei piccoli frutti simili a dei cachi, ma dal sapore molto dolce misto tra una prugna e un dattero. Infine, il termine diospiro deriva delle parole greche dios e pyros che significa grano di Zeus o meglio frutto di Dio.
Per poter conservare questo nobile e buonissimo frutto per tutto l'inverno, in oriente lo si essicca, consumandolo al pari dei datteri. Si ha così quello che in Cina viene chiamato shìbǐng, in Corea gotgam, e in Giappone hoshigaki, il quale viene prodotto pelando i frutti acerbi, quindi ancora astringenti e sodi, per poi appenderli al sole per almeno un mese. Il frutto nel frattempo seccherà e maturerà, andando ad acquisire il sapore e la consistenza di un dattero oltre al fatto che lo zucchero contenuto tenderà a cristallizzare sulla superficie.
Questi contengono l'80.0% di carboidrati (75.0% zuccheri semplici), il 2.0% proteine, lo 0.8% grassi e il restante acqua e sali minerali. 

Per testare il contributo di questo frutto nella birra, sono andato a fare una piccola cotta di barley wine, 5.0l a 20.0Br, al quale ho aggiunto a fine bollitura 250.0g di mirtilli neri, i quali sono rimasti nel mosto per tutta la fermentazione.
Non potendo misurare appieno il loro contenuto zuccherino, ho teorizzato pervio calcoli, che il mio mosto partiva da 22.4Br e a fine fermentazione avevo 12,6Br, con un attenuazione apparente del 59.3% abbastanza tipica del Fermentis S-04 utilizzato e un grado alcolico di 9.4ABV.


Mirtilli

Generalmente per mirtillo s'intende il frutto dell'omonima pianta (vaccinum myrtillus L.), conosciuto anche come mirtillo nero, pianta appartenete alle ericaceae, la stessa del corbezzolo e dell'erica arborea.
Ma il genere vaccinum è ricco di specie, diffuse lungo tutto l'emisfero settentrionale con clima temperato freddo, infatti, abbiamo il mirtillo gigante americano (vaccinum corymbosum L.) e il mirtillo rosso (vaccinum vitis-ideae L.). 
Quest'ultimo viene chiamato dagli anglofoni cowberry o lingonberry e non va confuso con quelli che loro chiamano cranberry. A questo nome rispondono: la morella di palude (vaccinum oxycoccos L.) diffuso in tutto l'areale subartico, l'ossicocco minore (vaccinium microcarpum (Turcz. ex Rupr.) Schmalh.) diffuso nell'areale subartico europeo e siberiano e l'ossicocco americano (vaccinum macrocarpon Aiton.) originario del Nord America.
L'utilizzo dei mirtilli secchi è uguale a quello dell'uvetta, e devo ammettere che mi sono arreso nella ricerca di questi frutti ai quali non vi fossero addizionati zuccheri o sciroppi, andando così ad utilizzare quelli più facilmente reperibili. Infatti, i mirtilli utilizzati presentavano 83.5% di zuccheri, (di cui 68.7% zuccheri semplici)

Per testare il contributo di questo frutto nella birra, sono andato a fare una piccola cotta di barley wine, 5.0l a 20.0Br, al quale ho aggiunto a fine bollitura 250.0g di mirtilli neri, i quali sono rimasti nel mosto per tutta la fermentazione.
Non potendo misurare appieno il loro contenuto zuccherino, ho teorizzato pervio calcoli, che il mio mosto partiva da 22.3Br e a fine fermentazione avevo 13.Br, con un attenuazione apparente del 50.8% abbastanza tipica del Fermentis S-04 utilizzato e un grado alcolico di 8.1ABV.

Parallelamente ho testato il contributo dell'altro frutto nella birra, sono andato a fare una piccola cotta di barley wine, 5.0l a 20.0Br, al quale sono andato ad aggiungere a fine bollitura 250.0g di ossicocchi (cranberries), i quali sono rimasti nel mosto per tutta la fermentazione.
Non potendo misurare appieno il loro contenuto zuccherino, ho teorizzato pervio calcoli, che il mio mosto partiva da 22.3Br e a fine fermentazione avevo 13.Br, con un attenuazione apparente del 50.8% abbastanza tipica del Fermentis S-04 utilizzato e un grado alcolico di 8.1ABV.

Tamarindo

Frutto dell'omonima pianta (tamarindus indica L.), una leguminosa presente dall'Africa orientale all'India, il cui nome deriva dall'arabo tamr hindī, che significa dattero d'India, per via del suo sapore che lo ricorda. Nota: nel mesoamerica esiste il tamarindo di Manila (pithecellobium dolce (Roxb.) Benth.), anch'essa una leguminosa che produce dei frutti simili al tamarindo, ma che vengono consumati prettamente freschi.
I frutti di tamarindo, così come come le carrube, sono dei baccelli che però presentano una buccia coriacea, molto simile a un guscio, al cui interno è presente una polpa pastosa dal sapore agrodolce, la quale ricorda la cotognata, nella quale sono contenuti dei semi duri.
Il tamarindo sbucciato e denocciolato contiene il 75.6% di carboidrati, il 4.7% di fibre, il 2.9% proteine, e il restante acqua e sali minerali. 

Per testare il contributo di questo frutto nella birra, sono andato a fare una piccola cotta di barley wine, 5.0l a 20.0Br, al quale ho aggiunto a fine bollitura 250.0g di polpa di tamarindi, i quali sono rimasti nel mosto per tutta la fermentazione.
Non potendo misurare appieno il loro contenuto zuccherino, ho teorizzato pervio calcoli, che il mio mosto partiva da 22.4Br e a fine fermentazione avevo 13.0Br, con un attenuazione apparente del 55.7% abbastanza tipica del Fermentis S-04 utilizzato e un grado alcolico di 8.9ABV.


Pere

La pera è il frutto del pero (pyrus communis L.), pianta appartenente alle rosaceae, quindi parente di meli e susini, nata dall'ibridazione con la sottospecie selvatica europea (pyrus communis subsp. pyraster (L.) Ehrh.) e quella caucasica (pyrus communis subsp. caucasica (Fed.) Browicz ).
Questo frutto come le sue cugine mele al fine di conservarsi per tutta la durata dell'inverno, lo si essiccava al sole in spicchi da quarto. Ancora oggi in Germania vi è la tradizione di essiccarle, però intere in appositi forni a legno, queste prendono il nome di hutzeln, mentre in Italia la tradizione si è persa.
Le pere secche contengono il 68.2% di carboidrati, il 1.7% proteine, lo 1.1% grassi e il restante acqua e sali minerali. 
Per testare il contributo di questo frutto nella birra, sono andato a fare una piccola cotta di barley wine, 5.0l a 20.0Br, al quale ho aggiunto a fine bollitura 250.0g di polpa di tamarindi, i quali sono rimasti nel mosto per tutta la fermentazione.
Non potendo misurare appieno il loro contenuto zuccherino, ho teorizzato pervio calcoli, che il mio mosto partiva da 22.2Br e a fine fermentazione avevo 13,6Br, con un attenuazione apparente del 49.8% abbastanza tipica del Fermentis S-04 utilizzato e un grado alcolico di 7.9ABV.






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